Messa crismale 2025, Mons. Russo: «Il presbitero dà la vita per il gregge»

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GIUSEPPE RUSSO
VESCOVO DI
ALTAMURA-GRAVINA-ACQUAVIVA DELLE FONTI
OMELIA
Messa Crismale
Concattedrale “Santa Maria Assunta” in Gravina in Puglia
16 aprile 2025

 

Is 61, 1-3a.6a.8b-9
Sal 88
Ap 1, 4-8
Lc 4, 16-21

 

Il sacerdozio di Cristo, il nostro sacerdozio

Nei testi della liturgia della Parola odierna c’è un continuo alternarsi tra riferimenti grammaticali espressi in prima persona singolare (mio, io, me) e in seconda persona plurale (voi, vi), in rapporto diretto o implicito al sacerdozio.

Nella prima lettura leggiamo:
Lo spirito del Signore Dio è su di me, perché il Signore mi ha consacrato con l’unzione; mi ha mandato a portare il lieto annuncio
ai miseri (61, 1).
Voi sarete chiamati sacerdoti del Signore, ministri del nostro Dio sarete detti (61, 6).
Nella seconda lettura:

… ha fatto di noi un regno, sacerdoti per il suo Dio e Padre (1,6).
Io sono l’Alfa e l’Omèga, Colui che è, che era e che viene (1, 8).

Nel vangelo, poi, Gesù nella Sinagoga di Nazareth legge proprio il brano di Isaia proposto nella nostra prima lettura, di cui abbiamo già
riferito.
Ora, c’è anzitutto una differenza sostanziale tra il sacerdozio di Cristo e il sacerdozio veterotestamentario.
La Lettera agli Ebrei, come sappiamo, contiene una meditazione accurata sul tema del sacerdozio, e offre la possibilità di comprendere nel suo vero significato il sacerdozio veterotestamentario, un sacerdozio imperfetto in ordine al soggetto che offre, all’oggetto dell’offerta e al frutto
dell’offerta.
Per questo Gesù è diventato garante di un’alleanza migliore. Inoltre, quelli sono diventati sacerdoti in gran numero, perché la morte impediva loro di durare a lungo. Egli invece, poiché resta per sempre, possiede un sacerdozio che non tramonta. Perciò può salvare perfettamente quelli che per mezzo di lui si avvicinano a Dio:
egli, infatti, è sempre vivo per intercedere a loro favore.
Questo era il sommo sacerdote che ci occorreva: santo, innocente, senza macchia, separato dai peccatori ed elevato sopra i cieli. Egli non ha bisogno, come i sommi sacerdoti, di offrire sacrifici ogni
giorno, prima per i propri peccati e poi per quelli del popolo:

lo ha fatto una volta per tutte, offrendo sé stesso (Eb 7, 22-27).

Un sacerdozio (quello dell’Antico Testamento), quindi, improprio, inadeguato, che va interpretato in chiave esclusivamente simbolica e anche prospettica, propedeutica.
Cristo è l’unico ed eterno sacerdote, lui che, uomo-Dio, ha potuto (1) offrire (2) sé stesso (3) per la salvezza dell’umanità (e dell’universo, della storia tutta, passata, presente e futura).
E cosa, inoltre, possiamo dire del ‘nostro’ sacerdozio, quello battesimale o cosiddetto ‘comune’? E di quello ministeriale?
Il nostro sacerdozio (battesimale) è tale (solo) per partecipazione al sacerdozio di Cristo, mentre il sacerdozio ministeriale è partecipato da Cristo al ministro con un carattere specifico, quello di essere a servizio del sacerdozio comune.
Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, a offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale (Rm 12, 1).

Il brano specifica il senso cristiano del sacerdozio comune (battesimale): offrire sé stessi (il proprio corpo, ma si intende la persona, tutta la persona secondo il linguaggio biblico) come sacrificio vivente, santo e gradito al Dio, compiendo il vero atto di culto, il culto spirituale.
Un sacrificio vivente spirituale, in opposizione al sacrificio cruento degli animali, che aveva solo un carattere simbolico, ma che non aveva e non poteva avere alcuna efficacia salvifica.
Il sacrificio efficace è quello di Cristo. Il nostro diviene efficace per partecipazione a quello di Cristo. Il battesimo ci inserisce, ci incorpora e ci configura a Cristo, ci conferisce la forma salvifica di Cristo (servo, dono).
Nel servizio, nella carità tutti noi possiamo esercitare il nostro sacerdozio.
Però, se la nostra vita non è pura, cioè non è autentica ed è inquinata dall’egoismo, dal possesso e dal piacere, non saremo in grado di servire ed amare.
Per questo, offrire noi stessi (il nostro corpo) come sacrificio vivente, significa farlo a partire da un cuore puro, povero e vero. Infatti, Paolo più avanti nello stesso capitolo affermerà che la vera carità non accetta finzioni (cfr. Rm 12, 9), cioè la vive solo chi è vero, chi è integro, chi è retto, chi non è ambiguo, interessato, doppio.
Inoltre, Paolo precisa (cfr. Rm 12, 4-8) che ognuno di noi eserciterà il proprio sacerdozio nella testimonianza viva secondo il proprio carisma specifico, poiché siamo membra diverse di un solo corpo.

Quindi, ognuno ha il suo posto, il suo carisma, il suo dono con cui esprimersi ed esprimere nella Chiesa la propria identità di cristiano, di discepolo di Gesù, di sacerdote, re e profeta.
Non si litiga, non si invidia, non si pretende e non si presume di saper fare tutto e meglio degli altri; ma non ci si tira indietro, si partecipa attivamente, si mette a disposizione degli altri e della comunità la propria vita e la propria testimonianza, il proprio sacrificio spirituale.
Il presbitero, poi, ministro ordinato, segno di Cristo capo e pastore, guida la comunità, non alla maniera di un capo assoluto e solo, ma in forma collegiale e sinodale, senza mai trascurare o sminuire l’ascolto di tutti, ma prendendosi le proprie responsabilità decisionali, più chiare e facili dopo un ascolto continuo e sincero.

E, ancora, il presbitero dà la vita per il gregge. Lo serve come ha fatto Cristo, lavando i piedi ai suoi e poi salendo sulla croce in atteggiamento di abbandono fiducioso alla volontà di Dio, dentro un amore totale per l’umanità, per la Chiesa.
La liturgia, lungi dal poter essere contrapposta al culto spirituale della vita, è invece l’esperienza cristiana più alta (anzi l’eucaristia ne è fonte e culmine), quindi il luogo in cui si può – se lo si vuole – sperimentare l’azione salvifica di Cristo sacerdote, l’azione ministeriale di presidenza del presbitero, l’azione sacerdotale di tutto il popolo di Dio.

Tutto è culto spirituale nella liturgia: il dono di grazia che irrompe nella storia della comunità e di ognuno, il corpo e il sangue di Cristo nella forma di pane e vino, la Parola proclamata nel segno della verità e della bellezza; la presenza, la richiesta di purificazione interiore, l’ascolto, l’accoglienza, la ministerialità, la partecipazione piena del popolo in attesa di essere trasfigurato per rendere partecipi della grazia ricevuta i fratelli e le sorelle, compagni di vita e di cammino o semplicemente coesistenti nel tempo e nello spazio di ogni giorno.
Per questa ragione, fede e liturgia sono un tutt’uno con la vita del credente e della comunità. Non sono mai separati nell’esperienza autentica cristiana.
E per questo, dobbiamo, sì, impegnarci seriamente a rendere significativa la nostra vita come offerta di amore, dono generativo.
Ma nello stesso tempo dobbiamo seriamente impegnarci a ritrovare pienezza di vita e potere vivificante nella liturgia, che va resa (finalmente!) non più luogo dell’ovvio e dello scontato (sia nella forma celebrativa che nello spazio e nella ministerialità), bensì luogo dell’inedito, dell’eccedente, dell’ineffabile che si rende presente proprio attraverso il rito, che deve tornare ad emozionare il credente che celebra, tutta la comunità nel suo insieme.
Questo ci è chiesto, da questo dipenderà molto del nostro futuro di credenti, di discepoli, di sacerdoti, di presbiteri, di Chiesa.

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