XXV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO anno B, Servo di tutti

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XXV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO anno B, Servo di tutti

XXV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO anno B – Mc 9,30-37

Servo di tutti

Nel vangelo di oggi abbiamo un annuncio della passione di Gesù. Gesù prepara così i suoi discepoli a non scandalizzarsi della croce, ma a capire che essa sarà la salvezza per il mondo. Ma i discepoli non comprendono, non chiedono spiegazioni, la loro attenzione è altrove, tanto che essi discutono tra loro chi sarà il più grande. Sono ancora molto lontani dal pensiero e dal modo di
vivere di Gesù. Devono convertirsi, cambiare mentalità, aprirsi alla nuova impostazione di Gesù.
E Lui, come maestro, li chiama e dà loro questo insegnamento: «Se uno vuol essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servo di tutti» (v35). Ultimo (non per falsa umiltà), ma “ultimo” e “servo” di
tutti, cioè colui che fa il più possibile per gli altri. Insegna anche a noi che dobbiamo metterci a servizio, con le opere, la fatica, i lavori umili, quei lavori che nessuno vorrebbe fare (in casa, in
ufficio, nel luogo di lavoro, nella comunità cristiana). Comportarsi così non vuol dire essere insulsi, bensì significa amare, aiutare, essere sensibili e realizzare la grandezza e la ricchezza del cuore, che sono molto più importanti della grandezza esterna e della ricchezza materiale. Un esempio di questo sono le mamme e i papà, i quali nella famiglia, fanno il più possibile per i figli, per amore; possono essere i consacrati, sacerdoti e suore, che intendono spendere la vita per il vero bene delle anime; sono tutti coloro che vivono gesti di amore, di sacrificio, di volontariato per il bene di chi ha bisogno. Questa è vera grandezza e questa è la vera gioia del cuore.
Siamo invitati tutti a vivere il servizio, a metterci a servizio degli altri, e non solo quando è piacevole, ma anche quando comporta sacrificio, incomprensioni, delusioni, critiche. Noi dobbiamo
vivere il servizio, sull’esempio di Gesù, il quale ha detto: «come il Figlio dell’uomo, che non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto per molti » (Mt 20,28).
Anche noi siamo nella Chiesa, nella comunità cristiana, non per essere serviti, ma per servire. Quindi dovremmo chiederci: come sono a servizio? Aiuto gli altri? Aiuto la parrocchia? Cosa
faccio in concreto? Oppure mi aspetto sempre dagli altri, cioè mi faccio servire? Nella preghiera spesso chiediamo a Gesù: “aiutami”. E Gesù dice a ciascuno di noi la stessa cosa:
“Aiutami”. Nella misura in cui aiutiamo Gesù per il suo regno, noi veniamo aiutati da lui e senz’altro abbiamo quelle grazie e quella forza che ci sono necessarie nei problemi della nostra vita
e della vita dei nostri cari. Gesù non concede grazie per renderci pigri e svogliati, ma ci chiede di essere generosi con tutti e buoni nel cuore: la sua ricompensa sarà immensamente grande. Gesùprende un bambino e dice: «Chi accoglie uno di questi bambini, accoglie me, accoglie il Padre» (v.37).

Il bambino esprime tanti sentimenti evangelici: è innocente, mite, ingenuo, affettuoso, spontaneo, non è formalista, non è calcolatore, è disponibile a imparare, si affida completamente a suo padre e a sua madre, esprime gratuità. Il bambino è speranza nell’umanità, è gioia nella famiglia, è l’immagine di quello che tutti vorremmo essere. Noi vediamo in lui tutto quello che nel mondo c’è
di bello, di buono, di santo. Ecco perché Gesù lo presenta come modello e ci invita ad accogliere i piccoli. Lo abbraccia e lo propone come modello di questa umiltà senza la quale non c’è né
Cristianesimo, né sequela di Cristo, né ascolto vero della Sua Parola. Accogliere il bambino significa accogliere Gesù stesso.
Accogliere Gesù vuol dire farsi Bambini e rinunciare alla logica delle priorità, dell’importanza, del potere, della vanità, dell’autoglorificazione, dell’esibizione. Pur essendo uomini importanti nella società o nella comunità dei credenti, senza umiltà, non siamo destinatari dell’amore di predilezione da parte di Cristo. Solo l’umiltà, unita alla carità ed alla semplicità di cuore ci apre il cuore di Cristo, il cuore di Dio. Il brano evangelico racchiuso nella liturgia della Parola di questa Domenica, si compone di due parti.
Nella prima, Gesù preannuncia per la seconda volta la sua Passione; ma sembra proprio che l’attenzione dei suoi discepoli sia rivolta altrove, tanto è vero che essi sono coinvolti in una discussione che verte su colui che, in mezzo a loro, possa essere considerato “il più grande”. In risposta a questo confronto dialettico, Gesù pronuncia una nuova profezia della sua passione, e invita i suoi discepoli rinunciare ad ogni desiderio di dominio, ribadendo che l’unica autentica autorità nel Popolo di Dio è e deve essere quella dell’ultimo posto, dell’umile servizio, di farsi piccoli come bambini, perché, come dirà in seguito: “a chi è come loro appartiene il regno di Dio”. Quello che i discepoli conoscono è un Gesù ancora misterioso che lentamente e gradualmente si va rivelando. E nel corso di questo percorso in cui vuol farsi conoscere meglio, Gesù dice ancora una volta, ai suoi discepoli, che “Il Figlio dell’uomo sta per esser consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma una volta ucciso, dopo tre giorni, risusciterà”.

Ma i discepoli non comprendono le parole di Gesù. I loro pensieri sono altrove e hanno timore di chiedergli spiegazioni. Loro che si aspettano ben altro da Lui. Hanno timore di interpellarlo, forse
per non essere rimproverati. È il timore degli adulti, è il timore di chi vuole organizzare ed impostare la propria vita secondo i suoi progetti, i suoi calcoli, le sue idee. Non è ancora, come sarà dopo la Pasqua, la fiducia incrollabile, come quella dei bambini. Il credere che nonostante la croce e la morte, Gesù riabbia la vita. Quando giungono a Cafarnao, i discepoli non vogliono dire a Gesù di cosa hanno parlato lungo la via. Né lui ha dato l’impressione di aver ascoltato i loro discorsi, anche perché, molto probabilmente, quando la piccola comunità è in cammino, Gesù va avanti a tutti, mentre i discepoli lo seguono a gruppetti. Mentre Lui ha camminato ripensando all’epilogo della sua missione, i discepoli hanno discusso tra di loro, chiedendosi chi di essi fosse il più importante, il più grande nel Regno, cercando di imporre gli uni agli altri la priorità del proprio ruolo al fianco di Gesù. E certamente, dopo aver visto la gloria del Tabor, tra di loro questi discorsi si sono fatti sempre più presenti, senza accorgersi di essere molto lontani dal pensiero di Gesù, dalla sua profezia, oltre che dal suo insegnamento. “Di che cosa stavate discutendo lungo la via?”, dice Gesù. I discepoli non rispondono perché sanno che Gesù non approverebbe assolutamente i loro meschini e gretti ragionamenti sul più grande di loro.

Allora Lui, che legge nei loro cuori, chiama i Dodici e dice loro: “Se uno vuol essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servo di tutti”. E, preso un bambino, lo pone in mezzo a loro, ed abbracciandolo dice loro: “Chi accoglie uno di questi bambini nel mio nome, accoglie me; chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato”. Il termine greco paidion significa fanciullo, per cui identificandosi con bambino, Gesù intende anche affermare che accogliere un bambino nel suo nome equivale ad accogliere lui, e chi avrà accolto un bambino nel suo nome sarà il più grande nel regno dei cieli.
L’essere grandi, diciamo adulti, importanti per gli altri, non dipende, certamente, dall’idea di essere preminenti rispetto agli altri, quanto da quella mozione dello Spirito che, dal di dentro, ci
sollecita a cercare di vivere la via dell’umiltà, della piccolezza e della semplicità, facendoci piccoli, come i bambini, sul modello dello stesso Gesù. Chi vuol essere il primo deve farsi ultimo e servo di tutti. Come si è fatto Lui, Servo di tutti, mite come un agnello, piccolo, umile e semplice come un bambino. Per rendere più plastico l’esempio, Gesù prende la persona più indifesa, semplice, innocente: un bambino. Lo abbraccia e lo propone come modello di questa umiltà senza la quale non c’è né Cristianesimo, né sequela di Cristo, né ascolto vero della Sua Parola. Accogliere il  bambino significa accogliere Gesù stesso. Accogliere Gesù vuol dire farsi Bambini e rinunciare alla logica delle priorità, dell’importanza, del potere, della vanità, dell’autoglorificazione,
dell’esibizione, molto diffusa oggi, anche nel Popolo di Dio.
Ai discepoli che dall’amicizia di Gesù si aspettano un grande prestigio ed un enorme potere personale, Lui propone la via della croce e dell’umiltà, virtù essenziale di ogni cristiano. Se non
siamo umili e semplici, non possiamo entrare in comunione vitale con Gesù Cristo, Figlio di Dio. Possiamo essere anche persone che occupano un posto di primo piano nella Società, nella politica, o nella stessa Comunità dei credenti, ma se non c’è umiltà in noi, non siamo destinatari dell’amore di predilezione da parte di Cristo. Solo l’umiltà, unita alla carità ed alla semplicità di cuore ci apre il cuore di Cristo, il cuore di Dio. Ce lo insegna una delle grandi anime mistiche della Cristianità: Padre Pio da Pietrelcina.
Perché Dio ha compiuto miracoli e prodigi senza numero per mezzo di Padre Pio? Certamente perché fin da giovanissimo si è offerto come vittima d’amore e di dolore, accanto a Cristo, nel supremo Negozio della Redenzione umana, effondendo fino all’ultima goccia del suo sangue, come dimostra la scomparsa delle stigmate dal suo corpo, nelle ore precedenti la morte.
Ma Dio ha compiuto innumerevoli meraviglie in Padre Pio soprattutto perché, e questo è un segreto nascosto che rivelo nel mio ultimo libro, perché la semplicità, l’umiltà, il suo essere quasi
come un bambino, la sua innocenza. E in effetti per cogliere l’autentico tratto distintivo della sua anima occorre proprio pensare che in Padre Pio il male non si è sprigionato ed evoluto come in ogni altro uomo, perché i suoi sentimenti lo hanno conservato sempre come un bambino, molto simile all’uomo originale, quello appena creato

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